Politica / casta, costi & posti. 12 – L’eterna riforma delle pensioni (altrui).

551555_10151337935607382_141441932_nLa riforma delle pensioni tiene banco da circa un ventennio. Fiumi di inchiostro, cascate di parole, alluvioni di prediche per confermare una pratica costante: fate quello che dico, ma non quello che faccio (per me).

Il primo Governo a ‘riformare’ le pensioni (altrui) è nel 1992 quello guidato da Giuliano Amato (pluri-pensionato eccellente, titolare di una molteplicità di ricchi trattamenti pensionistici): in piena burrasca “tangentopoli” vengono riformate (meritoriamente) le baby-pensioni, ossia quelle riconosciute a dipendenti pubblici che, riscattando finanche gli anni della culla, cominciavano a percepire la pensione in ‘tenera’ età, poco più che trentenni. La soglia dei 19 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi allora sufficienti per i pubblici impiegati per riscuotere la pensione veniva ulteriormente abbassata, riscattando i quattro anni di studi universitari e, per le signore, usufruendo di cinque anni di abbuono per (aver sopportato?) il marito.

Nel 1995 il Governo guidato da Dini (fuoriclasse in ribaltoni e contro-ribaltoni) fissa il principio del calcolo delle pensioni con metodo contributivo (beneficio rapportato alle somme versate), salvo per coloro che avevano già oltre 18 anni di contribuzione.

Superato indenne il quinquennio dei Governi di centro-sinistra (1996-2001), le pensioni tornano nel mirino nel quinquennio berlusconiano 2001-2006 con la fissazione dello scalone “Maroni”, eliminato nel biennio 2006-2008 dal secondo Governo Prodi.

La “fissa” delle pensioni torna con il ritorno del Cavaliere al timone del Governo nel 2008. Senza darla troppo a intendere, con le manovre ‘salsaccia’ e i tagli il duo Berlusconi-Tremonti mette mano pesantemente alle pensioni. E così, per andare in pensione, non bastano più 35 anni di contributi; successivamente si scopre che non sono più sufficienti neppure 40 anni, ma ne occorrono almeno 41; e poi 41 e mezzo.

Poi è venuta la Fornero … e nulla è stato più come prima. D’un colpo, persone a un passo della pensione sono state risucchiate all’indietro dalla macchina del tempo, per tanti anni ancora.

Per non dire degli esodati: dapprima coccolati e incentivati ad andare in pensione e poi, di colpo, letteralmente in mezzo alla strada: senza lavoro, senza salario/stipendio e senza pensione.

E domani? Chissà? Fatto sta che già Tremonti aveva cominciato a mettere mano alle liquidazioni, decretandone la erogazione ritardata (chissà se tra le prossime uscite non manchi l’erogazione postuma, ossia postuma al passaggio a miglior vita del beneficiario. E poiché, stando a ‘miglior vita’, il ‘de cujus’ non saprebbe certamente che farsene, se ne potrebbe fare una bella ‘devolution’ allo Stato, sempre voracemente bisognoso di soldi.

Fatto sta che ormai non è al sicuro quasi nessuno. Quasi, dicevamo, non a caso.

Ci sono taluni che, mentre pontificano sull’aumento della vita media e decretano sull’elevamento della (altrui) età pensionabile, la propria pensione (pardon, vitalizio) la percepiscono a partire dal 55° anno di età (ex consiglieri regionali) o addirittura prima dei 50 anni (casi di ex parlamentari), per giunta con appena cinque anni di versamenti (ma possono bastare anche meno di mille giorni, con prosecuzione volontaria). E in ogni caso non v’è alcun rapporto tra contributi versati e somme percepite.

Tra questi fortunati privilegiati, rappresentanti della volontà popolare, non manca nemmeno chi tenta finanche di convincerci di sacrificarsi esclusivamente “per il bene del Paese”, ingollando (ancor più del curato di cui racconta un noto aneddoto) due polletti al giorno (tanto poi conta la ‘media di Trilussa’).

Ma è poi davvero questa la ‘volontà popolare’?

Leonardo Rubino

12 – continua